CHE COSA È LA SEDAZIONE PROFONDA E QUANDO SI PUÒ PRATICARE
CHE COSA È LA SEDAZIONE PROFONDA E QUANDO SI PUÒ PRATICARE
Cari fratelli e sorelle, l’approvazione in Parlamento della legge sul fine-vita e recenti fatti di cronaca inducono a qualche riflessione sulla cosiddetta “sedazione profonda” e richiedono l’esplicitazione di qualche argomento per chi vuole mantenersi nella fedeltà alla visione della Chiesa. Ci chiediamo, quindi, che cosa è la sedazione profonda e quando la si può praticare. In genere si parla di sedazione palliativa. E’un atto di cura che consiste nel diminuire o togliere la coscienza ad un malato, con il suo consenso, quando la sofferenza non può più essere controllata dalle migliori cure disponibili. Può essere temporanea o continuativa, parziale oppure completa, cioè profonda. La sedazione profonda va da un giorno a 13 giorni dall’inizio della sedazione fino alla morte e si applica quando i sintomi sono intollerabili, ossia quando il paziente non ne porta più il peso nonostante tutti i migliori tentativi terapeutici di alleviarli. Solo in questi casi è possibile effettuarla, altrimenti si toglierebbe al paziente la lucidità di coscienza che è un bene indispensabile della persona, anche alla fine della vita, un momento in cui molte persone hanno paura di morire e desiderano poter mantenere un contatto con la vita che resta e con i propri cari. Quanto ai “sintomi intollerabili” si deve dire che il sintomo per sua definizione è soggettivo. Ci sono delle scale di valutazione che cercano di definire l’entità mediante scale numeriche, ma in buona parte è solo il paziente che ci può dire il livello di sofferenza che patisce. Il problema è comprendere la percezione che il paziente ha del dolore: un disturbo che a me pare di modesta entità può essere percepito molto intenso dal malato. È vero anche il contrario, un sintomo che a me sembra insostenibile può non esserlo per il malato. Dunque la “lucidità della coscienza” può essere sacrificata dinanzi ad un sintomo refrattario grave che genera una sofferenza intollerabile a giudizio della persona che muore. Per fare un esempio: la mancanza del respiro genera un’angoscia enorme nei malati. Quando i comuni rimedi utilizzati (morfina, cortisone, ansiolitici) non bastano a togliere il sintomo e l'angoscia che esso provoca, è doveroso proporre al malato la sedazione. Il bene oggettivo da tutelare è il dovere di alleviare le pene di un sofferente. Essa ha quindi questo fine unico, che ha poi come conseguenza la perdita della coscienza senza accelerare la morte che avverrà naturalmente. La sedazione profonda non può essere utilizzata per accelerare la morte. Se l’organismo della persona non dà segni di una morte imminente, e magari la prognosi di sopravvivenza è oltre le tre-sei settimane (esistono scale di valutazione prognostica in cure palliative), effettuare la sedazione profonda, magari sospendendo l'idratazione e l'alimentazione, è un atto moralmente illecito che accelera la morte. Bisogna essere vigili per evitare da una parte l’accanimento terapeutico e dall’altra possibili soluzioni rinunciatarie, ossia di possibile abbandono terapeutico, richiesto dal malato e acconsentito dal medico. Ciò non ha nulla a che vedere con la filosofia delle cure palliative che si preoccupano invece di offrire ai malati la possibilità di terminare la propria vita in modo naturale, con minor sofferenza possibile e salvaguardando il valore della relazione tra chi cura e chi viene curato. La legge sul fine-vita approvata recentemente in Parlamento apre la possibilità infatti che il malato imponga al medico cosa possa fare e cosa non possa, senza appello. Non per niente il termine originale “dichiarazioni” è stata sostituita con “disposizioni”, molto più coercitiva sul comportamento del medico. Non per niente la legge non prevede neppure l’obiezione di coscienza da parte del curante. Di fatto, questa legge è una strada verso l’eutanasia, che – insieme all’aborto e al “far west” della fecondazione eterologa – segnano il declino di una civiltà.