QUARTA LECTIO DIVINA D'AVVENTO 19 dicembre 2016
Lectio Divina d’Avvento
Sulla Prima Lettera ai Corinti di S. Paolo Apostolo – 19 dicembre 2016
(ispirata ad un testo del card. Carlo Maria Martini,
L’utopia alla prova di una comunità, PIEMME 1998)
I. PAOLO DAVANTI ALL’INFLAZIONE DEI CARISMI
Dopo aver meditato insieme, nella prima Lectio, l’immagine della comunità cristiana secondo il sogno di Gesù; aver visto – nella seconda – qual era la condizione concreta della comunità di Corinto, specchio della nostra; aver meditato sul dono di grazia che è la sessualità, nella terza, affrontiamo oggi su un altro dono di grazia: i carismi.
Anche questo dono ha creato problemi alla Chiesa di Corinto; a questi carismi Paolo accenna fin dall’inizio della lettera; dice infatti: “In Cristo Gesù siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della scienza” (1,5).
Ma appunto la ricchezza di parola e di scienza diventa motivo di disordini, di divisioni e di ferite. A noi preme comprendere in quale modo l’Apostolo affronta le discordie comunitarie dovute al cattivo impiego dei carismi, cercando di raddrizzare, di ricostruire il quadro di fede. Usiamo lo stesso metodo della volta precedente: i fatti, le cause, il giudizio, i rimedi.
1. I fatti
Nella comunità di Corinto i doni sono davvero molti, dice Paolo: “Nessun dono di grazia più vi manca” (1 Cor 1,6). E’ soprattutto nel cap. 12 che Paolo tratta dei carismi, dandone un elenco: “Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio che restiate nell'ignoranza … (…) a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; [9]a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell'unico Spirito; [10] a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l'interpretazione delle lingue” (1.8-10).
Nove doni, dunque, e pur se non è facile spiegare che cosa si intende esattamente per “linguaggio della sapienza” o “linguaggio della scienza”, di certo i Corinti lo sapevano.
Paolo tuttavia riconosce che questi doni provocano disordini nelle assemblee e non a caso conclude la trattazione del tema dei carismi con un’affermazione precisa, inequivocabile: “Dio non è un Dio di disordine, ma di pace” (14,33).
Sulla necessità dell’ordine, Paolo ritorna nello stesso capitolo, al v. 40: “Tutto avvenga decorosamente e con ordine”.
L’ordine era messo in questione dalla confusione, dalla quantità, dalla molteplicità dei doni; quando i cristiani di Corinto si radunavano, ciascuno voleva dire la sua e non si riusciva così né a parlare né ad ascoltare.
Nella comunità, inoltre, nascono continuamente dispute, si verificano millanterie, preferenze sui diversi doni – il mio è migliore del tuo ! - , che addolorano Paolo; dice: “ Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove sarebbe l’odorato?” (12, 17).
E’ un po’ come a scuola, quando ogni professore pretende che la sua materia sia la più importante, quella determinante, da studiare con maggiore attenzione. A Corinto orgni fedele pretende che il suo dono sia il più utile.
Ancora. I Corinti credono di avere una sapienza superiore: da qui tutte le conseguenze anche nel campo della sessualità, che abbiamo già considerato. E Paolo dice: “Sappiamo di avere tutti scienza”. E’ un modo per canzonare un po’ i suoi fedeli: sappiamo che avete la scienza e l’ho pure io! Ma aggiunge subito: “la scienza gonfia, mentre la carità edifica. Se alcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere. [3]Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto” (8,1-2).
Vieni qui abbozzata la via della soluzione: non nega la sapienza, la scienza, però sa che può gonfiare, che può avere effetti cattivi e portare a conclusioni dannose, e offre il rimedio della carità.
Forse è capitato a tutti di incontrare cristiani che, ritenendo di conoscere bene il Vangelo, disprezzano i piccoli, quelli che con fatica arrancano giorno dopo giorno cercando di essere fedeli alla parola del Signore. Forse abbiamo incontrato alcuni che si definiscono cristiani adulti o maturi, che dichiarano di non aver più bisogno della mediazione della Chiesa, né dei sacramenti, né della preghiera; gente che risolve il Vangelo nella promozione sociale, se non c’è la quale ritengono che il cristianesimo sia inutile; e disprezzano la preghiera dei piccoli, la fede dei piccoli; cristiani per i quali se la fede con è problematicizzata, se non è una fede che per forza dubita non è fede e via dicendo.
Dunque i carismi, anche quelli presenti nelle nostre comunità – in questo caso la scienza – possono purtroppo degenerare. S. Ignazio di Lojola, nelle Regole per il discernimento degli spiriti, date nella 2° settimana degli esercizi, ci fa capire che quando si progredisce nella vita spirituale la maggior parte delle tentazioni viene da cose in sé buone, come appunto i doni di grazia. Perciò è fondamentale il discernimento che Paolo offre ai cristiani di Corinto.
2. Le cause
Dopo i fatti, le cause. A tal proposito basta ricordare ciò che abbiamo già detto nella seconda Lectio, ossia che i Corinti si erano appropriati i doni di Dio e ritenevano essere un diritto ciò che invece era un dono. Da qui nasceva l’incapacità non solo di ringraziare, ma anche di gioire per un dono ricevuto: infatti, chi ritiene un dono un diritto non ringrazia più perché crede che gli sia dovuto.
Nel caso specifico, i Corinti – non ritenendo più un dono i carismi – se ne vantavamo come di cosa propria, minacciando così di inaridire la sorgente della vita comunitaria.
4. Il giudizio
Il giudizio espresso da Paolo è molto semplice:
- i doni/i carismi provengono dallo Spirito, quindi sono buoni, a cominciare dalla professione della fede: “ Nessuno può dire Gesù è Signore se non sotto l’azione dello Spirito” (12,3b);
- i doni sono diversi, lo Spirito è sempre lo stesso: [4]Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; [5]vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; [6]vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti (12,4-6);
E dopo aver elencato i nove doni nei versetti 8-10, come abbiamo visto sopra, ripete: tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole (v. 11)
- i doni sono dati per l’utilità comune: A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune (v. 7)
in vista del bene di tutti.
Il “bene di tutti” è il grande principio sociologico applicabile ai carismi e pure alle tante manifestazioni devozionali; occorre sempre domandarsi non solo se siano autentiche, bensì se contribuiscano all’ordine e alla pace della comunità. Per questo la Chiesa non si pronuncia spesso sui fenomeni delle apparizioni o delle locuzioni. Piuttosto si chiede se uniscono gli spiriti e se li mettono gli uni contro gli altri, se accrescono la serenità e la pace oppure se confondono e turbano gli animi. Lo stesso si può dire di certe “fughe in avanti”, dentro la Chiesa, che turbano, confondono, a volte si presentano come l’unico modo di vivere il Vangelo o di interpretare il Concilio Vaticano II; separano fra “gli illuminati”, che finalmente rinnovano la Chiesa, e i “retrogradi” che non vogliono capire, che si fissano sulle regole. Stesso discorso vale per chi si ostina a scambiare la Tradizione della Chiesa, che con la Sacra Scrittura è fonte della Rivelazione, con le “tradizioni degli uomini”, per cui ogni cambiamento – anche se non di sostanza – va osteggiato come tradimento della volontà del Signore. Il “bene di tutti” è il principio a cui sempre ci si deve riferire, insieme ad un latro: quello di non scandalizzare i piccoli che credono, come dice il Signore del Vangelo.
5. I rimedi
Passiamo ora ai rimedi. Il giudizio generale sui doni apre la porta a due rimedi che Paolo offre ai Corinti, ne desiderio di ricostruire il quadro della fede.
- Anzitutto un rimedio di natura disciplinare e pastorale – restando per così dire sul piano orizzontale.
Un po’ più di ordine nelle assemblee: Dice: Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due o al massimo in tre a parlare, e per ordine; uno poi faccia da interprete. [28]Se non vi è chi interpreta, ciascuno di essi taccia nell'assemblea e parli solo a se stesso e a Dio. [29]I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. [30]Se uno di quelli che sono seduti riceve una rivelazione, il primo taccia: [31]tutti infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possano imparare ed essere esortati (14, 27 ss). Sono regole fondamentali ma dimenticate dagli entusiasti carismatici. Lo Spirito c’è, opera grandi cose, ma è necessario evitare quella confusione che non giova a nessuno; è necessario vivere un ordine nella parola, nell’espressione e nella spiegazione.
- A questa direttiva di natura disciplinare e pastorale, Paolo aggiunge un rimedio di natura teologica attraverso il principio del superamento, ossia dell’andare al di là. Il discorso sui carismi/doni, sottintende l’Apostolo, è limitato. Guardate più in alto, perché c’è ben di più: Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte (12,31).
Da qui prende avvio lo stupendo testo la cui proclamazione abbiamo ascoltato poc’anzi. Paolo, tormentato dalle difficoltà della comunità, ha una nuova straordinaria intuizione teologica. Dunque il senso di tali prove è anche, storicamente, di far zampillare intuizioni teologiche. Così è stato per esempio per le dispute nella Chiesa sulla natura di Cristo, sulla Trinità, sullo Spirito Santo. E potrebbe essere ancora così oggi a proposito del matrimonio, accettando il confronto sincero e costruttivo.
Veniamo così alla lectio sul brano che abbiamo sentito proclamare all’inizio del nostro incontro di preghiera.
LECTIO DI 1 COR 13
Si tratta di un canto bellissimo, facilmente divisibile in tre parti: a) la superiorità della carità (v. 1-3); b) le opere della carità (v. 4-7); c) l’eternità dell’amore (v. 8-13).
1. [1]Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. [2]E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. [3]E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.
Questa prima parte sottolinea, con un linguaggio poetico sorprendente, che l’amore è la via superiore, è più grande persino della fede e dei miracoli, dello spogliarsi dei propri beni per darli ai poveri. In questi versetti Paolo richiama cinque dei nove carismi presenti in 1 Cor 12.8 – lingue, profezia, sapienza, scienza, fede – e nomina quello di distribuire le proprie sostanze non elencato prima. Eppure proprio questo ci appare paradossale: come è possibile dare i soldi ai poveri senza avere la carità? Che cosa significa lasciare il mio corpo alle fiamme? Probabilmente intendeva Paolo consegnarsi come schiavi per ottenere la libertà ad altri; in ogni caso, come sarebbe possibile farlo se non ho la carità?
Si può capire che l’amore non è le lingue, non è la profezia, non è la fede che trasporta le montagne, ma non si può capire che non sia il donare i propri averi e la propria vita. Che cosa vuol dire allora Paolo? Ed è interessante che Paolo non spieghi nemmeno perché l’amore è più grande. Lo afferma come un principio, ripete il primato dell’amore come se andasse da sé, se fosse ovvio: senza amore – sembra dire – nulla vale!
Certamente si tratta di una intuizione profonda di Paolo, che gli viene dalle parole di Gesù, quando disse in Matteo 25: saremo giudicati sull’amore. Tuttavia egli sembra andare oltre perché in Mt 25 le opere comprendono il dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati etc. (ossia le opere di misericordia corporale e spirituale), mentre nel nostro testo queste opere non implicano necessariamente la carità. Come spiegare? Io seguo qui il pensiero del car. Martini, il quale afferma che egli pensa che qui si tratti di una intuizione estatica, spirituale molto forte: Dio è amore, Lui solo. Perciò l’amore è il primo e non è niente delle altre cose. Dio è diverso da ciò che abitualmente chiamiamo “amore”, “carità”. Forse – questo lo dico io – assomiglia all’intuizione mistica di S. Paolo ciò che ha provato e descritto S. Teresa di Gesù Bambino. Nel manoscritto in cui narra la sua vita e la sua vocazione, scrive: “Durante l'orazione, i miei desideri mi facevano soffrire un vero martirio: aprii le epistole di san Paolo per cercare una risposta. I capitoli XII e XIII della prima epistola ai Corinzi mi caddero sotto gli occhi. Lessi, nel primo, che tutti non possono essere apostoli, profeti, dottori, ecc.; che la Chiesa è composta di diverse membra, e che l'occhio non potrebbe essere al tempo stesso anche la mano. La risposta era chiara, ma non colmava il mio desiderio, non mi dava la pace. Come Maddalena chinandosi sempre sulla tomba vuota finì per trovare ciò che cercava, così, abbassandomi fino alle profondità del mio nulla, m'innalzai tanto in alto che riuscii a raggiungere il mio scopo. Senza scoraggiarmi, continuai la lettura, e trovai sollievo in questa frase: «Cercate con ardore i doni più perfetti, ma vi mostrerò una via ancor più perfetta». E l'Apostolo spiega come i doni più perfetti sono nulla senza l'Amore. La Carità è la via per eccellenza che conduce sicuramente a Dio. Finalmente avevo trovato il riposo. Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ero riconosciuta in alcuno dei membri descritti da san Paolo, o piuttosto volevo riconoscermi in tutti. La Carità mi dette la chiave della mia vocazione. Capii che, se la Chiesa ha un corpo composto da diverse membra, l'organo più necessario, più nobile di tutti non le manca, capii che la Chiesa ha un cuore, e che questo cuore arde d'amore. Capii che l'amore solo fa agire le membra della Chiesa, che, se l'amore si spegnesse, gli apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue... Capii che l'amore racchiude tutte le vocazioni, che l'amore è tutto, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi, in una parola che è eterno. Allora, nell'eccesso della mia gioia delirante, esclamai: Gesù, Amore mio, la mia vocazione l'ho trovata finalmente, la mia vocazione è l'amore! Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto, Dio mio, me l'avete dato voi! Nel cuore della Chiesa mia Madre, io sarò l'amore. Così, sarò tutto... e il mio sogno sara attuato!” (Manoscritto B nn. 253-254)
2. Nella seconda parte dell’inno – vv. 4-7 – Paolo spiega le opere della carità. Non la definisce – del resto la Scrittura non dà quasi mai definizioni, preferendo il linguaggio narrativo –, mala descrive con 14 verbi, a dire: l’amore è un mistero, è Dio, non posso racchiuderlo in una definizione, però suscita determinate azioni.
Delle 14 opere due sono positive (la carità è paziente, benigna è la carità), otto negative (non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia), e infine 4 ancora positive (tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta).
Ci accorgiamo subito che la lista dei non è più lunga della lista del “si”, a sottolineare la preferenza di Paolo nell’indicare ciò che l’amore non fa. E le stesse sei opere positive richiedono un patire più che un agire. Dunque amare non significa fare qualcosa per gli altri, come si pensa abitualmente, ma piuttosto sopportare gli altri, come sono. Messo alla prova l’amore vero tollera, pazienta, sopporta.
Del resto, tutte le 14 opere sono atteggiamenti di pazienza, se le leggiamo con attenzione: la carità è benigna, benevola nel senso che non si fa notare; non è invidiosa, non si vanta, non si adira, non tiene conto del male ricevuto … Insomma la carità promuove comportamenti umili, miti, remissivi. Ma occorre una grande forza spirituale per viverli. Paolo insegna questo modo di amare ad una comunità difficile, affinché impari a vivere pacificamente in una situazione di tensione. E’ chiaro che bisognerà pure dedicarsi ai poveri, però se la comunità al suo interno è divisa, se i cristiani parlano male gli uni degli altri, anche le opere cd. di misericordia sono vane, inautentiche. E’ un ragionamento molto sottile quello che fa Paolo.
Ma qual è la sorgente dell’ispirazione di questo meraviglioso inno all’amore? Anche qui seguo Martini, il quale dice di pensare che sia Gesù la sorgente di tale ispirazione. L’Apostolo contempla il Crocifisso e, a qualche giorno da Natale noi possiamo mettere accanto alla croce Gesù Bambino, che tutto sopporta, tutto crede, tutto perdona, tutto spera; contempla Gesù che durante la sua esistenza terrena è paziente, non è invidioso, non si inorgoglisce, non considera come una preda (un tesoro geloso) l’essere uguale a Dio, ma assume la condizione di servo; non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, non vuole la vendetta, trova la sua gioia nella verità. Comprendiamo allora che amare significa essere come Gesù. Il farsi uomo del Figlio di Dio ci dice che all’uomo – a noi – è possibile essere così.
Passando poi dal livello cristologico a quello teologico, l’ispirazione finale di 1 Cor 13 è Dio stesso: la Chiesa, i cristiani sono chiamati ad imitare il Dio paziente e misericordioso, ricco di benevolenza.
Si tratta dunque di un ideale altissimo e Paolo lo propone perché è il solo capace di guarire le divisioni e le ferite dei Corinti.
3. La terza parte del cap. 13 canta l’eternità dell’amore. Poiché è divino, è Dio, non finisce mai, non può finire. Scompariranno le profezie, cesserà il dono delle lingue, la scienza svanirà (cf v. 8). Vengono qui ripresi da Paolo i tre carismi che creavano i maggiori problemi per sottolineare che sono caduchi, dal momento che la vita dell’uomo termina col giudizio e il ritorno di Gesù, con la parusia. Di tutte queste cose – dice Paolo – su cui voi , cari Corinti, continuate a discutere, non si parlerà più.
Ai vv. 9-10 insiste sull’argomento, dal punto di vista del limite della parzialità: “La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta è la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà”. Dunque, i carismi/doni cesseranno con la vita della comunità storica (uno sguardo retrospettivo!) e, inoltre, ciò che è limitato verrà abolito e contempleremo una perfezione ben più grande dei carismi. Paolo usa due esempi: quello del bambino e quello dello specchio. Quello del bambino non lo commento: è subito comprensibile. Quello dello specchio ha probabilmente attinenza col fatto che a Corinto si fabbricavano specchi; a quel tempo, non essendo di vetro, davano solo una visione indiretta, ma pure confusa, oscura. Con esso si sottolinea che la nostra conoscenza di Dio su questa terra è parziale, inadeguata e solo in futuro farà posto alla visione. In quel giorno conosceremo Dio come lui ci conosce adesso, vedremo in volto l’Amore, capiremo che la gloria di Gesù è la croce e che le umiliazioni, le difficoltà da noi vissute erano gloria divina in questo mondo, che nella nostra debolezza si nascondeva già il volto glorioso di Cristo. Attualmente il nostro sguardo è opaco, confuso. E’ bellissimo il v. 12, dove Paolo sembra contraddirsi perché al v. 10 aveva detto che la nostra conoscenza imperfetta scomparirà; qui si corregge affermando che resterà e però sarà trasfigurata, elevata ad un livello superiore.
Perciò i doni sono buoni, specialmente il dono della conoscenza di Dio, della sapienza delle cose di Dio, ma costituiscono un inizio e non si può vantarsene, anzi senza l’amore si deturpano. Con l’amore, la conoscenza buona diventerà perfetta. Così i Corinti vengono sollecitati a riflettere seriamente sulla fine dei tempi e sul giudizio escatologico.
Il v. 13, l’ultimo, è difficile da spiegare: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità. Chiaramente qui risuona l’intuizione di Paolo: l’amore è più grande, è all’inizio e alla fine. Stupisce tuttavia l’improvvisa menzione della fede e della speranza in questo versetto che appare come un lampo, uno scoppio di conoscenza ancora più grande. Che cosa vuol dire quel “dunque”, in greco nunì “ora”? Che cosa vuol dire “rimangono”? Rimangono nel tempo presente o nell’eternità?
Sembra di comprendere che la carità resta in eterno in quanto cresce in pienezza.
Per avere un’idea possiamo leggere ciò che dice S. Tommaso d’Aquino: “Quando saranno compiuti tutti i nostri desideri, cioè nella vita eterna, la fede cesserà. Non sarà più oggetto di fede tutta quella serie di verità che nel «Credo» si chiude con le parole: «vita eterna. Amen».
La prima cosa che si compie nella vita eterna è lunione delluomo con Dio.
Dio stesso, infatti, è il premio ed il fine di tutte le nostre fatiche: «Io sono il tuo scudo, e la tua ricompensa sarà molto grande» (Gn 15, 1).
Questa unione poi consiste nella perfetta visione: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia» (1 Cor 13, 12).
La vita eterna inoltre consiste nella somma lode, come dice il Profeta: «Giubilo e gioia saranno in essa, ringraziamenti e inni di lode» (Is 51, 3). Consiste ancora nella perfetta soddisfazione del desiderio. Ivi infatti ogni beato avrà più di quanto ha desiderato e sperato. La ragione è che nessuno può in questa vita appagare pienamente i suoi desideri, né alcuna cosa creata è in grado di colmare le aspirazioni delluomo. Solo Dio può saziarlo, anzi andare molto al di là, fino allinfinito. Per questo le brame delluomo si appagano solo in Dio, secondo quanto dice Agostino: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è senza pace fino a quando non riposa in te». I santi, nella patria, possederanno perfettamente Dio. Ne segue che giungeranno allapice di ogni loro desiderio e che la loro gloria sarà superiore a quanto speravano. Per questo dice il Signore: «Prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25, 21); e Agostino aggiunge: «Tutta la gioia non entrerà nei beati, ma tutti i beati entreranno nella gioia. Mi sazierò quando apparirà la tua gloria»; ed anche: «Egli sazia di beni il tuo desiderio». Tutto quello che può procurare felicità, là è presente ed in sommo grado. Se si cercano godimenti, là ci sarà il massimo e più assoluto godimento, perché si tratta del bene supremo, cioè di Dio: «Dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 15, 11).
La vita eterna fine consiste nella gioconda fraternità di tutti i santi. Sarà una comunione di spiriti estremamente deliziosa, perché ognuno avrà tutti i beni di tutti gli altri beati. Ognuno amerà laltro come se stesso e perciò godrà del bene altrui come proprio.
Così il gaudio di uno solo sarà tanto maggiore quanto più grande sarà la gioia di tutti gli altri beati (Dalle «Conferenze» di san Tommaso dAquino, sacerdote (Conf. sul Credo; Opuscula theologica 2; Torino 1954, pp. 216-217).
TRE MESSAGGI PER NOI
1. Non esistono comunità difficili, siamo invece carenti di carità.
E’ la mancanza di carità a rendere difficile una comunità, ma la situazione scabrosa ha il senso provvidenziale di fare nascere l’amore. E’ questo il formidabile messaggio di speranza che Paolo ci consegna.
2. La carità è Gesù, è Dio.
Possiamo allora contemplare la nascita, la vita, la passione e la morte di Gesù, così come tutto il Primo e il Nuovo Testamento ispirandoci a 1 Cor 13, per vedere in quale modo Dio agisce con gli uomini, in quale modo Gesù agisce con noi.
3. L’amore è sempre vincente (Omnia vincit amor, Virgilio) anche se al momento non appare, perché rimane in eterno, mentre tutto il resto passa. Dunque, ciò che si è fatto per amore non avrà mai fine, pur se in questa vita non verrà riconosciuto.
MEDITATIO (e spunti di riflessione per la preghiera personale
• Io sono oggetto della carità di Gesù. “Signore Gesù, come hai esercitato verso di me, nel corso della mia vita, le 14 azioni di amore descritte da Paolo nell’inno alla carità”?
• (A livello psicologico e antropoliogico) Quale delle 14 azioni di carità è il mio punto debole?
E’ molto utile mettermi davanti al Signore, contemplare il Crocifisso – e in questo tempo anche Gesù nella mangiatoia – e chiedermi se mi riesce più difficile essere paziente o benevolo o non invidioso etc. Perché Gesù stesso mi farà capire la radice del mio peccato e insieme mi darà la forza per strapparla ed iniziare, con la grazia del suo Spirito, un cammino nuovo.
• (A livello ecclesiologico). Come mi impegno per ristabilire nella mia comunità – secondo la responsabilità mia propria – l’ordine della carità? L’ordine esteriore – nella liturgia, nelle riunioni etc. – è, più in profondo, quello che nasce dalla proclamazione del primato del Dio dell’Amore?