SECONDA LECTIO DIVINA D'AVVENTO 5 DICEMBRE 2016
Lectio Divina d’Avvento
Sulla Prima Lettera ai Corinti di S. Paolo Apostolo – 5 dicembre 2016
(ispirata ad un testo del card. Carlo Maria Martini,
L’utopia alla prova di una comunità, PIEMME 1998)
I. UNA COMUNITA’ DIVERSA DA QUELLA IDEALE
LE INFEDELTA’ DELLA COMUNITA’
Continuiamo il nostro cammino di riflessione, stimolati dalla seconda tappa del piano pastorale triennale del Vescovo: Eucaristia, comunione e comunità. Esso si iscrive nel secondo anno del progetto pastorale parrocchiale: dalle nostre dispersioni al diventare comunità intorno a Gesù (primo anno); dalla comunità intorno a Gesù al fare comunione con lui (Eucaristia e vita) (secondo anno).
1. L’ideale, il sogno di Chiesa accarezzato da Paolo, che è in definitiva anche il sogno di Gesù, e che lunedì scorso esposto, ha dovuto fare i conti con la realtà diversa. Paolo ha investito molto e ha amato questa comunità di Corinto: perciò misura quanto è distante dall’ideale da lui desiderato.
In questa comunità concreta, del 57 d.C., poco dopo la Pasqua e prima della festa di Pentecoste, ci sono divisioni, l’incomprensione del ruolo degli apostoli, la tendenza a gonfiarsi, a vantarsi dei doni, il disordine nelle assemblee liturgiche; la difficoltà a vivere nel modo giusto i carismi, abusi inaccettabili, processi tra fratelli, difetti gravissimi che va elencando. Paolo sa che questo quadro oscuro ha delle radici profonde e che sono le stesse delle nostre comunità e di noi stessi.
Vediamo quali sono queste radici.
• Innanzitutto la presunzione: abbiamo i doni, preghiamo bene, parliamo in lingue, ormai possiamo fare tutto.
• L’altra radice è che si è appropriata dei doni di Dio. Si gloriavano dei carismi come se fossero cosa loro. Le comunità cristiane – almeno in Europa – considerano i doni come un possesso scontato, dimenticando che sono di Dio e che potrebbero perderli: la nostra fede è secolare, ci è tramandata dai padri, non corre alcun pericolo ! Anziché gonfiarsi come i Corinti, i cristiani d’Europa vivono tiepidamente, mediocremente: è inutile ascoltare le prediche, non serve impegnarsi più di tanto perché sappiamo già come comportarci, come rispondere. E così si rallenta il passo, ci si mette in pericolosa situazione di stallo. E’ la stessa radice degli errori della comunutà di Corinto, pur se espressa diversamente: ci si appropria dei doni di Dio considerandoli come dovuti, come eredità necessaria; anche la presenza del prete, per esempio, è dovuta, ed è dovuta l’Eucaristia quasi fosse un diritto acquisito. E questi doni diventato nostra proprietà: la Messa, la Chiesa, la parrocchia. Se pensiamo così siamo incapaci poi di ringraziare, di riconoscere che tutto va accolto con amore, con gratuità, di comprendere che dalla gratuità verranno nuovi doni..
• Ne segue che non sappiamo accettare i doni degli altri perché pensa: ma è dono mio. Questa è la radice delle divisioni, gelosie, invidie: io sono di Paolo, io di Cefa…
• Una radice più profonda: essi non sanno accogliere la diversità dei doni e si mettono gli uni contro gli altri.
Facciamo un po’ di lectio sul testo poc’anzi proclamato:
a) Paolo si è accorto che i Corinzi, a causa dell’orgoglio, si sono legati ad alcubi leader e hanno confuso i ruoli, dimenticando che l’attore principale è Dio. Paolo, però, invece di rimproverarli subito, li inviata ad allargare l’orizzonte e lo fa con due domande: “Che cosa mai è Apollo”? “Che cosa mai è Paolo”?, Ossia: avete capito male il significato del nostro lavoro e del nostro ministero. Paolo, cioè, dà due risposte: la prima è ecclesiale: siamo ministri “attraverso i quali siete venuti alla fede”, non leader; la seconda è teologica: “ciascuno secondo quanto il Signore gli ha concesso”. Dunque: tuto viene da Dio, tutto è dono e bisogna riconoscerlo come tale, non appropriarsene. Apollo e Paolo hanno ricevuto come voi dei doni, senza i quali non sono niente. Paolo dunque si sforza di rimettere le cose in ordine nella comunità, di mostrare l’insensatezza dei settarismi. C’è anche una terza risposta, di carattere “agricolo”: Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere.
b) Segue perciò una prima conclusione: Dio solo conta, non chi pianta o irriga;
c) E poi, al v. 8° c’è una seconda conclusione: “Non c’è differenza fra chi pianta e irriga: i servitori sono una cosa sola e non si possono contrapporre.
d) C’è quindi una terza conclusione: “Ciascuno riceverà la sua mercede, secondo il proprio lavoro”; sottinteso: non siamo noi a dover giudicare se hanno lavorato bene o meno.
e) Al v. 9, Paolo riassume i 3 termini del problema: noi, voi e Dio. Noi siamo collaboratori, di Dio, voi siete il campo, l’edificio di Dio.
Ne esce un’immagine di ministero e di comunità da cui viene tolto la radice dell’inimicizia, attraverso la contemplazione dell’opera di Dio.
2 - Ma non c’è solo questo.
Diceva il card. Martini, a cui queste riflessioni che vi offro si ispirano: “Se dovessi stilare un elenco di caratteristiche negative che segnano una comunità cristiana d’Europa, sarei molto imbarazzato perché sono davvero tante. Ne ricordo almeno alcune:
- la tiepidezza;
- la poca partecipazione dei fedeli alla vita e alle attività della Chiesa;
- le divisioni interne, in particolare tra parrocchie e movimenti;
- la mancanza di vocazioni, problema gravissimo che affligge tutta la comunità ecclesiale d’occidente;
- l’indifferenza religiosa e il consumismo che permette ogni possibile comodità a scapito della sobrietà e dello spirito di sacrificio;
- la fuga dei giovani dopo il sacramento della Confermazione... (cf. l.c.).
L’elenco potrebbe continuare”. Tuttavia, tralasciando i lamenti, partiamo da un aspetto positivo, così come fa Paolo: egli ringrazia incessantemente il Signore per la grazia data ai Corinti in Cristo Gesù. Il suo è un linguaggio ben poco presente nelle nostre comunità che pure hanno delle grazie grandissime come per esempio la grazia della fede, di credere nonostante la società sia indifferente e secolarizzata. È un miracolo credere in Gesù Figlio di Dio, credere alla risurrezione, alla vita eterna. Un’altra grande grazia è la Chiesa, questa realtà «improbabile» perché si basa sulla rinuncia e sul superamento di sé, non sulla comodità e sulla facilità; tuttavia la Chiesa esiste, prosegue il suo cammino nella storia e comunque irradia il mistero di Cristo. Grazia sono i sacramenti: come non rendere lode a Dio per la sua Presenza, per la straordinaria Shekhinah che si ha nei sacramenti? E, ancora, le chiese occidentali possono contare sulla grazia della tradizione, una tradizione secolare ricca di santità e di testimonianze esemplari. Tutte queste grazie sono a disposizione dei fedeli ed è dunque un difetto grave non partire dal ringraziamento per ciò che hanno.
Pare che i cristiani non solo si dimenticano di esprimere la riconoscenza per i doni del Signore nella preghiera, ma se lo dimenticano anche a livello di coscienza.
Andando più a fondo nella ricerca delle radici negative della lamentazione, segnalo quella di non considerare i doni come tali, gratuiti e immeritati. Come vedete, sto ripercorrendo il tracciato della situazione ecclesiale di Corinto.
In Occidente, ci si appropria dei doni di Dio ritenendoli dovuti, come doni che vanno da sé, che si possiedono una volta per sempre. Ciò significa aver perduto il senso della gratuità di Gesù Cristo, della grazia, della redenzione, dell’Eucaristia, del sacerdozio ministeriale, della Chiesa. In questo modo i doni non danno più alcuna gioia; un po’ come quando si va in un grande magazzino, si vede un oggetto, lo si desidera, si chiede il prezzo, lo si compra e si è contenti, si prova gioia, ma la gioia passa subito perché ormai l’oggetto è nostro. Le comunità cristiane non sperimentano più la gioia per i doni di Dio perché li hanno da tempo, da molto tempo, e li hanno sempre. Non sanno che potrebbero perderli, non si impegnano per trafficarli, non ritengono di dover migliorare, crescere, maturare.
Dobbiamo dunque pregare e vigilare, nella consapevolezza che il senso della gratuità dei doni divini è essenziale per la redenzione. Tutto lo sforzo di Paolo nelle lettere ai Romani e ai Galati consiste nell’evidenziare la gratuità della grazia che è sempre un dono del Padre. Un dono da ricevere ogni giorno con gioia e insieme con umiltà sapendo di poterlo perdere a motivo dei nostri peccati.
Ciò che è in gioco è proprio la gratuità della grazia.
3. Chiediamoci: qual è il rimedio radicale a tutto ciò? Quale il capovolgimento che occorre operare e che la Chiesa continua a proporci, in particolare nella liturgia?
È il ritorno allo spirito eucaristico: Ti rendo grazie, Signore! Un atteggiamento tipico di Paolo: «Ringrazio continuamente il mio Dio per voi» (1 Cor 1, 4a).
C’è un’icona biblica assai pertinente al nostro tema; è l’immagine di una società dove la maggioranza della gente è tentata di non rendere grazie.
«Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce, dicendo: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”. Appena li vide, Gesù disse: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”» (Lc 17, 11-18).
Forse Gesù vuole dirci: dov’è il 90% di coloro che sono stati gratificati, graziati dalla misericordia di Dio? Perché non rendono gloria a Dio?
La maggioranza dei cristiani è soggetta all’errore di non vivere l’atteggiamento eucaristico. La parabola sottolinea che soltanto il Samaritano, uno straniero, ha ringraziato. Lo ha fatto perché per lui era tutto nuovo, non dovuto, era tutto dono. Noi, purtroppo, riceviamo i doni divini senza pensarci, siamo lontani da quello spirito eucaristico che prepara ad accogliere nuovi doni. Eppure è questo spirito che può impregnare l’esistenza illuminando le nostre giornate, riempiendole di colori mirabili, variegati. La liturgia ci insegna a rendere continuamente grazie sempre e ovunque, per ogni evento, per ogni circostanza; tuttavia la durezza del nostro cuore ci impedisce di ascoltare e di fare nostre le parole e le orazioni liturgiche.
L’atteggiamento eucaristico è intriso di umiltà, di gioia, di lode e anche di riverenza per il creato. Ha dunque rapporto con il rispetto per la natura, con il rispetto per ogni creatura esistente sulla terra, perché tutto è grazia. È l’atteggiamento della Vergine Maria espresso nel sublime canto del Magnificat: «La mia anima esulta nel Signore, perché ha guardato alla piccolezza della sua serva» (cf. Lc 1, 46ss.).
II. LE MIE INFEDELTA PERSONALI AI DONI DI DIO
Abbiamo riflettuto sulla povertà delle nostre comunità cristiane in relazione alla povertà della chiesa di Corinto: non mancano di doni - ne hanno anzi in abbondanza -, ma di riconoscenza nel senso profondo del termine.
Ora ci proponiamo di dare voce alle nostre infedeltà personali verso i doni di Dio, e vi suggerisco due domande per entrare in preghiera e prepararvi al sacramento della Confessione.
1. Perché e di cosa mi lamento? Quali le mie lacrime? sono vere davanti a Dio? Come posso convertirle in atti di intercessione o di speranza? Di fatto nei Salmi e in altri testi biblici troviamo spesso dei pianti buoni, giusti perché si esprimono in supplica di intercessione, in grido di speranza. Non si devono dunque abolire, dal momento che costituiscono un genere letterario molto importante nella Scrittura. Bisogna invece, alla luce dello spirito eucaristico, trasformare i lamenti in atti d’intercessione o di speranza.
E come vivo i lamenti per ciò che riguarda gli altri che hanno relazione con me?
2. Rendo grazie a Dio almeno una volta nella giornata? Lo ringrazio per i miei veri doni? Ho la coscienza che appartengono a lui e che può darmeli o togliermeli come vuole? Ne sono distaccato?
È lo spirito eucaristico vissuto in pienezza che mi permette una profonda libertà di cuore.
III. LA CONFESSIONE SACRAMENTALE
A partire dalle due domande, ritengo utile spendere qualche parola sulla Confessione sacramentale che di solito si può fare con maggiore tranquillità e più distesamente durante i giorni di Esercizi.
In Europa si verifica una crisi della Confessione. È probabilmente un’altra conseguenza di quegli atteggiamenti negativi che abbiamo sottolineato: perdendo il senso della gratuità dei doni di Dio, si perde pure il senso del peccato e non si capisce perché sia necessario chiedere perdono.
Forse però la crisi proviene soprattutto da una concezione troppo formale del sacramento della Riconciliazione: si elencano i peccati per avere l’assoluzione. In realtà la Riconciliazione è frutto di un processo interiore. Vi propongo l’insegnamento del card. Martini al proposito.
“Ho trovato – dice il Cardinale – un procedimento molto semplice, vissuto poi da tantissime persone cui l’avevo suggerito, che chiamo colloquio penitenziale e si appoggia su tre parole latine: confessio laudis, confessio vitae, confessio fidei.
1. È utile iniziare con la confessione di lode, con un’azione di grazie: esprimo al sacerdote ciò di cui vorrei ringraziare il Signore. Talora mi capita di dover confessare la gente e allora, prima che una persona si affretti a sciorinare i suoi peccati, le chiedo: è accaduto qualcosa per cui sente il bisogno di ringraziare Dio? E magari mi risponde: Sì, è guarito mio figlio che era ammalato... si è aperta una soluzione a un problema difficile...
Cominciare quindi con il riconoscimento dei doni, delle grazie speciali che Dio mi ha fatto nella vita, in questo anno, in questo mese, e delle grazie proprie della vocazione.
2. Così diventa facile passare alla confessione della vita, dei peccati, partendo dall’esame di coscienza sui comandamenti di Dio, sull’amore di Dio e del prossimo, sui nostri doveri, sulle beatitudini evangeliche.
Tuttavia, a chi non sa bene che cosa dire, pongo il seguente interrogativo: c’è qualcosa in te, in questo momento, che ti dispiace? Che cosa vorresti non aver fatto, che cosa ti pesa sulla coscienza? È una buona domanda perché consente di portare allo scoperto le cause del peccato, oltre che i peccati formali. Le cause: antipatie, ire, invidie, gelosie, avarizia, una certa malizia, una certa cattiveria che sentiamo dentro, disgusti, repulsioni che non osiamo confessare nemmeno a noi stessi. Tutti i nostri peccati, i nostri nervosismi, il nostro modo scorretto di trattare il prossimo hanno radice nell’incapacità di accettarsi, di volersi bene, nel timore di non essere accettati e amati.
In fondo, è quel male interiore che ci dispiace, che non vorremmo avere, ma scoprendolo possiamo metterlo davanti agli occhi di Dio e gettarlo con semplicità nel suo cuore di Padre.
3. La confessione della fede conclude il colloquio, ed è preghiera di intercessione e di speranza: Gesù, abbi pietà di me, perdona i miei peccati, aiutami a rialzarmi!
In tal modo la confessione è fondata su un processo di purificazione e la si vive come un esercizio che fa bene, che rinnova, corrobora, consola e stimola a camminare sulle strade del Signore”.