Omelia di don Gabriele per il 50° di ordinazione sacerdotale di don Gianni Dovera
28 giugno 2018 – Messa di vigilia dei Santi Pietro e Paolo Apostoli
Cinquantesimo di Ordinazione Sacerdotale di don Gianni Dovera – Terranova dei Passerini
1. Cinquanta anni fa, proprio come oggi, mons. Tarcisio Vincenzo Benedetti, con l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria, attraeva don Gianni nel sacerdozio ministeriale di Cristo e lo conformava a lui, affinché continuasse il ministero che sempre si perpetua nella Chiesa, l’ufficio sacro, cioè, di inserire gli uomini in Cristo, affinché la vita che scorre in lui – in Gesù – scorra anche nei suoi fratelli e nelle sue sorelle. E questa vita è vita eterna. Sì, uno diventa prete per dare la vita eterna, cioè la vita stessa di Dio.
2. Sono le letture di oggi, vigilia della solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, che illuminano questo fatto.
Abbiamo ascoltato la prima lettura. Uno storpio è seduto presso la porta del Tempio detta Bella e chiede l’elemosina. Chiede denaro per poter provvedere alla sua vita, che non è in grado di costruire da solo. Ed ecco arrivare Giovanni e Pietro, i quali – per quel che concerne ciò che lo storpio chiede, cioè il denaro – sono poveri come lui: “Non possiedo né argento né oro”. Tuttavia Pietro e Giovanni possiedono una ricchezza che in quel momento non è certamente oggetto dei pensieri dello storpio. “Quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, alzati e cammina”. Al posto del surrogato – l’elemosina per poter mandare avanzi quella misera vita da storpio – gli viene donata una cosa non domandata, non attesa, non richiesta. Chiedeva un po’ di soldi, si ritrova, invece, ritto sui suoi piedi. Egli – cioè – viene restituito a se stesso. D’ora in poi potrà camminare, saltare addirittura, come dice la lettura, che è segno di libertà, entrare nel Tempio per lodare e ringraziare Dio, mentre fino a quel momento stava sulla soglia. “Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do nel nome di Gesù, il Nazareno”. Con queste parole, cari fratelli e sorelle, e soprattutto caro don Gianni, viene descritto esattamente il contenuto del ministero sacerdotale. “Non possiedo né oro né argento”, il che equivale a dire che non è compito del sacerdote la trasformazione materiale del mondo. In un tempo in cui percepiamo così acutamente il bisogno materiale del mondo (pensiamo all’immensità dei bisogni della gente, la nostra gente e anche quella non immediatamente vicina a noi) non ci sentiamo forse – noi sacerdoti – immensamente poveri? Ed è qui che sorge la tentazione – comprensibile – di andare oltre quelle che possono apparire solo parole (la predicazione, la catechesi, i riti sacramentali) – parole che sembrano così insignificanti e insufficienti dinanzi ai veri bisogni del mondo! Ma a questa tentazione bisogna resistere: si deve resistere, cioè, alla tentazione di trasformare il sacerdozio in servizio sociale e azione politica, per poter dare finalmente qualcosa – per così dire – di concreto, di reale. La trasformazione del sacerdozio in azione sociale non risolve il problema dei bisogni dell’uomo, perché questi “bisogni” –la fame, la giustizia, il lavoro, il riconoscimento dei diritti basilari etc. – dipendono dalla durezza del cuore. Per fare un esempio: il mondo produce cibo abbastanza per tutti; perché – allora – alcuni buttano via il cibo e altri muoiono di fame? Non è forse a causa della durezza del cuore dell’uomo, che si incrosta poi in strutture di peccato con ramificazioni potentissime e planetarie? Noi sacerdoti non siamo chiamati a risolvere queste problematiche sociali perché siamo chiamati a dare all’uomo ciò che spesso non chiede e altrettanto spesso non conosce. Proprio per questo a noi sacerdoti non è consentito di orientare la nostra offerta in base alla domanda, perché in tal modo noi riduciamo l’uomo, cerchiamo di sedarlo con un surrogato e lo teniamo lontano dell’essenziale. Quello che ho te lo do: “Nel nome di Gesù Cristo”. Donare il nome di Gesù Cristo è questo il contenuto perenne del nostro sacerdozio. Dare il Corpo di Cristo, donare cioè qualcosa di infinitamente più grande di quanto potrei mai dare come uomo; dire: “Io ti assolvo”. Durante la prigionia in Russia un pastore non cattolico aveva chiesto ad un sacerdote cattolico di confessarlo; quando questi gli aveva domandato come mai, il pastore protestante rispose: “Non voglio essere confortato, ma assolto”. Oppure sulla soglia della morte poter amministrare la santa Unzione in vista della risurrezione, rendere cioè presente la resurrezione come unica vera risposta alla morte, così che l’ultimo momento sulla terra sia l’inizio della vita pienamente libera in Dio.
Donare il nome di Gesù: qui è racchiuso tutto il senso di una vita sacerdotale.
Ciò non significa che il sacerdote non si debba interessare ai problemi sociali – anch’egli infatti è cittadino con una responsabilità rispetto al mondo – ciò che voglio sottolineare è che il valore della vita di un prete non dipende dalla soluzione dei problemi sociali, quasi che in questa soluzione egli veda finalmente il senso della sua vita sacerdotale.
4. Per donare il nome di Gesù presuppone che noi sacerdoti viviamo nel nome di Gesù. Ed è esattamente ciò che avviene con il sacramento dell’ordine. Con questo sacramento Gesù dice ad un uomo: “Tu potrai dire le mie parole”. Dirai: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. E dirai: “Io ti assolvo”. Lo dirai con il mio “io”. E tutto ciò non dipende dall’abilità del prete, dalla sua devozione, dalla sua grande o limitata capacità di amare. No: dipende da Cristo e dalla sua fedeltà, che agisce nella storia attraverso un uomo che egli ha configurato a sé.
5. Questo non si significa che il sacerdote sia un “automa”, un manichino che esegue più o meno esattamente ciò che gli vien detto di fare, perché tanto tutto sicuramente funzionerà. Questa conformazione a Gesù implica il prete nelle fibre più profonde del suo cuore. Lo abbiamo sentito nel Vangelo: “Simone di Giovanni mi ami? Pasci le mie pecorelle”. Gesù sempre pone a noi preti questa domanda: “Mi ami?” Pasci! Essere preti significa essere avvinti in questo dinamismo che domanda sempre e sempre più la relazione con il Signore. Se è vero che l’efficacia del ministero del prete non dipende dalla sua rettitudine e dalla sua santità, è altrettanto vero che se lui non cresce nella relazione col Signore – che può attraversare momenti anche molti difficili quando non addirittura conflittuali – il primo a restare fuori da ciò che è successo allo storpio della Porta Bella del tempio di Gerusalemme è proprio lui. Certo egli sarà sempre in basso, avrà sempre la certezza di non essere altro che servo, non penserà mai che l’efficacia del suo sacerdozio dipenda dal rigoglio della sua vita spirituale. Egli vivrà sempre della consapevolezza, restituita da un passaggio del romanzo di Bernanos: “Diario di un povero curato di campagna”, laddove il protagonista del romanzo, interiormente tormentato, riesce a restituire la pace alla contessa, in lotta con Dio da tempo per la morte di un figlio. Ciò avviene dopo un colloquio lunghissimo, intenso, con impennate di ribellione da parte della donna e anche atteggiamenti offensivi verso il prete, che si sente egli pure trascinato in una lotta interiore fino al parossismo, ma alla fine la donna smette di resistere a Dio. “Siate in pace le avevo detto – sono parole del protagonista del romanzo. Ed ella aveva ricevuto quella pace in ginocchio. Possa conservarla per sempre! Sono io che gliel’ho data. O meraviglia, che si possa donare ciò che per se stessi non si possiede; o dolce miracolo delle nostre mani vuote! La speranza, che nel mio cuore moriva, è rifiorita nel suo; lo spirito di preghiera che avevo creduto perso senza scampo, Dio lo ha reso a lei e chi sa? in mio nome forse … Possa conservare anche questo, conservi tutto! Eccomi spogliato, Signore, come solo voi sapete spogliare, poiché nulla sfugge alla vostra sollecitudine spaventosa, al vostro spaventoso amore”.
Caro don Gianni, oggi siamo in festa ed è bello gioire e ringraziare. Ma non possiamo dimenticare né tu né noi che essere preti significa muoversi dentro queste latitudini meravigliose e tremende. Tanto ci ha presi sul serio Cristo!