PAROLE ESIGENTI DEL METROPOLITA ANTONIJ

  • 01/04/2022
  • Don Gabriele

Agosto 1968: invasione della Cecoslovacchia, i tank soffocano la «primavera» di Praga. In quei giorni il metropolita Antonij rivolge ai suoi fedeli smarriti e amareggiati – come tutti noi oggi – parole esigenti, che recidono alla radice false giustificazioni, calcoli politici e opportunismi, ma sono cariche della «speranza che non delude». Vi prego di leggere questo testo con molta attenzione e senza pregiudizio.

Il vostro parroco

Don Gabriele

“Ancora una volta sulla nostra terra umana tanto sofferente e provata il calice dell’ira, il calice del dolore, il calice della sofferenza si riempie fino all’orlo, e ancora una volta trabocca. E noi non possiamo restare indifferenti al dolore che ora raggiunge migliaia e migliaia, milioni di uomini. Davanti alla nostra coscienza cristiana si leva ancora una volta tremenda, esigente la parola di Dio, o più esattamente la figura di Cristo stesso, che si è fatto uomo, è entrato nel nostro mondo, non ha cercato né gloria né virtù, ma si è fatto fratello degli oppressi e dei peccatori. La solidarietà di Dio con l’uomo non mina la sua solidarietà con il Padre; e qui ci troviamo davanti a un’immagine che facciamo molta fatica a comprendere e ancor di più a mettere in pratica: l’immagine di Colui che ha voluto essere unito sia con chi ha ragione, sia con chi è colpevole, che ha abbracciato tutti con un unico amore, l’amore dei patimenti in croce nei confronti di alcuni, e l’amore gioioso, ma sempre crocifisso, nei confronti di altri. Ora nelle coscienze di molti campeggia l’immagine dell’ira, e in questa immagine si scelgono alcuni e si escludono altri; nell’esperienza della giustizia, della comprensione e della compassione i cuori umani scelgono alcuni e maledicono altri. Ma questa non è la via di Cristo e neppure la nostra via: la nostra via consiste nello stringere gli uni e gli altri in un unico amore, nella consapevolezza e nell’esperienza dell’orrore; consiste nell’abbracciarli non con comprensione ma con compassione; non con condiscendenza ma con la consapevolezza dell’orrore davanti all’ingiustizia, e della croce davanti alla giustizia. Io invito tutti voi che vedete quanto sta succedendo nel mondo, a considerare ancora una volta quale debba essere la nostra posizione di cristiani, dove sia il nostro posto in questa lacerazione del tessuto da cui si riversano sangue, lacrime, orrore, e a comprendere che il nostro posto è sulla croce, e non semplicemente ai piedi della croce. Spesso si pensa: ma che possiamo fare? Il cuore si spacca tra l’amore per gli uni e la comprensione per gli altri: che cosa possiamo fare, noi che siamo così impotenti, privi di parola, di diritti? Possiamo metterci di fronte al Signore in preghiera, la preghiera di cui parlava lo starec Siluan quando diceva che pregare per il mondo è come versare il sangue. Non è la facile preghiera che eleviamo nella nostra quiete imperturbabile, ma la preghiera che dà l’assalto al cielo nelle notti insonni, la preghiera che non dà tregua, la preghiera che nasce dall’angoscia della compassione; la preghiera che non ci permette più di vivere del nulla e della futilità; la preghiera che esige da noi che finalmente comprendiamo la profondità della vita anziché trascinarla in modo indegno. Indegno di noi, indegno di Dio, indegno del dolore e della gioia, dei patimenti di croce e della gloria della Resurrezione che continuamente si avvicendano e si intrecciano nella nostra terra. Non basta qualche pizzico di comprensione, non basta dire «non possiamo far niente»: se ci mettessimo a pregare così, se questa nostra compassione ci facesse scartare dalla vita tutto ciò che è troppo meschino per stare di fronte all’orrore della terra, diventeremmo persone degne di Cristo, e allora, forse, anche la nostra preghiera si leverebbe come una fiamma che brucia e illumina; allora, forse, intorno a noi non ci sarebbero l’inerzia, l’indifferenza, l’odio che invece esistono e proliferano, perché non siamo di alcun impedimento al male là dove siamo. Davanti a ciò che sta avvenendo, davanti alla Croce, davanti alla morte, davanti all’agonia spirituale della gente giudichiamo la meschinità, la nullità della nostra vita. Allora potremo fare qualcosa: con la preghiera, con la forma della nostra vita e, forse, anche con qualcosa di più audace e creativo. Ma ricordiamo che Cristo non ha scelto; Cristo è morto perché i giusti sono perseguitati e perché i peccatori si perdono. Ebbene, in questa duplice unità con gli uomini che abbiamo intorno, in questa duplice unità con il giusto e il peccatore preghiamo per la salvezza dell’uno e dell’altro; impetriamo la misericordia di Dio, affinché i ciechi acquistino la vista, affinché la giustizia si affermi; non dico il giudizio ma la giustizia, che conduce all’amore, al trionfo dell’unità, alla vittoria di Dio. Amen”

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