IL PROVINCIALISMO

  • 29/04/2017
  • Don Gabriele

IL PROVINCIALISMO

Cari fedeli, il nostro paese, come tanti altri, vive quella dimensione tipica di ogni realtà di provincia, che va sotto il nome di “provincialismo”. Esso assume diverse manifestazioni, alcune delle quali positive, tanto che Michele Spina, in un articolo del 25 settembre 2015, su “L’intellettuale dissidente” ne ha fatto l’elogio, scrivendo così: “Vivere in provincia, al netto di quel che si pensa oggigiorno, non è un freno alla conoscenza del mondo, ma il viatico perfetto per quella stessa conoscenza. Il cosmopolita fa esperienza del deserto, fa esperienza dei grattacieli, fa esperienza della savana, fa esperienza della cucina orientale, fa esperienza delle belve feroci, fa esperienza praticamente di tutto, ma non dell’animale più grandioso: l’uomo. L’uomo in tutta la sua limitatezza, l’uomo in tutta la sua contraddizione, l’uomo in tutta la sua stupenda drammaticità si conosce soltanto stando fermi, e ancor meglio in una piccola realtà, dove c’è scarso ricambio e pochissima concorrenza. Un buon medico, per visitarti la gola, ti dice di star fermo. Un buon insegnante, per spiegarti meglio la lezione, ti chiede di venire nel suo ufficio. E un buon antropologo, prima di intervistare una qualche stirpe di aborigeni, farebbe bene ad intervistare la tabaccaia. Per il primo caposaldo del cosmopolita, la provincia è una prigione dell’uomo. Noi diciamo che non è una prigione dell’uomo, ma la sua lente d’ingrandimento. Per il secondo caposaldo del cosmopolita, muoversi continuamente equivale in fondo a maturare continuamente. Noi diciamo al contrario che questa maturazione non è progresso, ma appiattimento a uno standard precostituito, a un’ideologia del movimento che assomiglia a un matto che siede su un’altalena convinto di sedere sul pianeta Terra. Ma l’altalena non è il pianeta Terra. La provincia invece sì”. Il tentativo quindi di sottrarsi alla nostra vita di provincia ci rende dei provinciali un po’ ridicoli. Per restare nell’ambito di mia competenza (per esprimermi così), rischia di essere un provinciale un po’ ridicolo chi – pensando di elevarsi – va a Messa “in città”, per non “mischiarsi” con i suoi. Per non parlare di chi, cresciuto nella fede della Chiesa e vivendo qui, non viene più a Messa, perché vuole sentirsi emancipato da una “abitudine” ritenuta provinciale. O chi, ritenendosi libero dalle costrizioni provinciali, non saluta il prete, che invece lo saluta lo stesso, o fa fatica a salutarlo, perché questi incarna ai suoi occhi un rimasuglio di tradizione provinciale. Essere provinciali nel senso migliore del termine non significa avere una mentalità chiusa: significa piuttosto saper integrare il piccolo col grande; il circoscritto coi vasti orizzonti; il microcosmo in cui viviamo col macrocosmo in cui siamo inseriti; la fedeltà alle cose minuscole con la disponibilità a prendere il largo … Questo discorso vale per tutti, ma in particolare per le giovani generazioni, che sentono lo stimolo della dinamica “centrifuga” (e a volte “fuggono”, pur restando fisicamente qui, arenandosi cioè nei paradisi artificiali). Quanto ho scritto non suoni come biasimo per chi fra noi ha trovato un impiego all’estero: lo scambio fra realtà differenti è certamente arricchente. L’importante è non creare il mito che “lontano è più bello”. Siamo chiamati a trasformare il mondo in cui viviamo senza fughe e, se si deve andare lontano, lo si deve fare senza disprezzo per le nostre radici. Ci riflettiamo un po’ su?

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