Omelia del parroco nella Messa per gli operatori pastorali 13.12.2016
13 dicembre 2016
Santa Messa per gli operatori pastorali
Omelia del Parroco
E’ passato un anno da quando si siamo trovati per analoga circostanza. Come lo scorso anno, anche oggi voglio ricordare che questa celebrazione, in certo qual modo, estende il ringraziamento Eucaristico, perché ognuno con il proprio ruolo all’interno della comunità parrocchiale, dice grazie all’altro, in quanto senza l’altro, che in essa si impegna, questa parrocchia non sarebbe ciò che è. Non so se ricordate, ma l’anno passato avevo insistito molto sulla “corresponsabilità”. Siamo tutti responsabili della vita della parrocchia; con ruoli diversi, ma con una responsabilità condivisa. E ciò in forza del nostro Battesimo. Ciascuno perciò sente affetto per questa comunità; ciascuno desidera che risponda sempre meglio alle attese che il Signore nutre nei suoi confronti. Nessuno può dire: è cosa dei preti; oppure: riguarda questo o quest’altro ma non me.
E’ passato un anno; non so come è andata veramente fra noi sul versante della corresponsabilità. Io non mi arrischio a fare verifiche in questo senso: è troppo presto; stiamo lavorando, stiamo – con l’aiuto di Dio – edificando. Vedo segni molto belli di impegno e di corresponsabilità infraparrocchiale: ci sono molti laici che “ci sono”, che si spendono, che nell’ambito loro affidato fanno bene. Vedo che molti si sacrificano davvero per la parrocchia: se c’è bisogno, loro ci sono; se lanci una proposta non si tirano indietro. E questa è la parte bella. Anche San Paolo nella Prima ai Corinti inizia così: elogiandoli.
Tuttavia mi sono accorto che per rendere la corresponsabilità un dato acquisito da tutti gli operatori pastorali si deve cominciare dalla comunione. Senza di essa la corresponsabilità presto si arena, perché ci si stanca, perché a volte le cose da fare sono davvero tante: c’è la famiglia, i figli, il lavoro e poi anche la parrocchia. Ci può essere anche un pensiero nascosto, che ogni tanto fa capolino: in fondo la parrocchia non è così importante; se devo tagliare via qualcosa dei mie impegni comincio da lì. E questo perché? Perché non si vive ancora la parrocchia come una famiglia; ossia la comunione non è ancora maturata.
La comunione è però prima di tutto donata: è Cristo che la fa, partecipando alla sua Eucaristia. L’Eucaristia culmina nella Comunione, vuole essere ricevuta. Che cosa accade in realtà nella Santa Comunione? Tutti i comunicanti mangiano l’unico e medesimo pane, Cristo, il Signore. Mangiano all’unica mensa di Dio, nella quale non c’è alcuna differenza, nella quale l’imprenditore e il lavoratore, l’italiano e il francese, il dotto e l’incolto hanno tutti lo stesso rango. Se vogliono appartenere a Dio, appartengono all’unica mensa: l’Eucaristia li raccoglie tutti in un unico convivio. E, come detto, in comune non c’è solo la mensa, ma quello che essi mangiano; sul serio è assolutamente la stessa e medesima cosa: mangiano tutti Cristo, perché come uomini sono tutti uniti spiritualmente alla medesima realtà fondamentale di Cristo, tutti entrano per così dire in un unico spazio spirituale che è Cristo.
Dobbiamo pertanto tutti fare uno sforzo per passare da una visione privata dell’Eucaristia ad una visione comunitaria. Certamente, come abbiamo detto ieri sera nella lectio divina sulla Prima Corinti, chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. La relazione personale con Cristo non viene assorbita dalla dimensione comunitaria. Ma si tratta appunto di una dimensione “personale”, non “privata”: personale non si oppone a comunitario, così come nella vita di coppia, fra marito e moglie, “personale” non si oppone all’intesa, alla complicità e alla condivisione che deve esserci fra i due. Vi si oppone la “vita privata”; nella coppia, infatti, non c’è più nulla di privato, ma c’è ancora molto di personale.
Tornando alla dimensione comunitaria, Sant’Agostino, nel corso di una esperienza mistica, udì la voce del Signore che gli diceva: «Io sono il pane dei forti. Mangiami. Non sarai tu però a trasformare me in te, come accade per il cibo comune, ma io trasformerò te in me». Nella normale alimentazione, l’uomo è più forte del cibo. Egli lo mangia, nel processo digestivo esso viene scomposto e (in ciò che gli è utile) assimilato al corpo, trasformato in sostanze proprie dell’organismo, diviene un pezzo di noi stessi, trasformato nella sostanza del nostro corpo. Nell’Eucaristia, il nutrimento, vale a dire Cristo, è più forte ed è più di noi. Così che il senso di questo nutrimento è esattamente opposto: esso vuole trasformare noi, assimilarci a Cristo, così che possiamo uscire da noi stessi, giungere oltre noi e divenire come Cristo. Ma questo significa di conseguenza che tutti i comunicanti, con la Comunione, vengono tratti fuori da sé e assimilati all’unico cibo, vale a dire alla realtà spirituale di Cristo. Questo a sua volta vuol dire che essi vengono anche fusi tra loro. Vengono tutti tratti fuori da se stessi e condotti in un unico centro.
Tornerò evidentemente su questo punto altre volte, durante l’anno pastorale, perché fa parte dell’itinerario che la parrocchia e la diocesi si sono date. Ma questa sera mi piace sostare con voi, operatori pastorali, su questo punto: noi che mangiamo il corpo di Cristo, diventando il suo Corpo nel mondo, dobbiamo vivere la comunione fra noi.
Uno degli aspetti sintomatici di questa dimensione comunionale, nata dal mangiare l’unico pane, è la cura per l’armonia nella comunità. Come ho scritto sull’ultimo notiziario settimanale, ci deve stare a cuore l’armonia del tutto. Io devo inserirmi armonicamente nella comunità: con rispetto, con delicatezza, facendo attenzione a non ferire, favorendo i doni di tutti, senza escludere nessuno. Farò attenzione a come parlo, a come canto, a come prego, a come lavoro, a come organizzo. Avere cura dell’armonia del tutto significa che nessun gruppo è autoreferenziale; perché poi succede che, quando si è partecipato a ciò che ha organizzato il proprio gruppo, ci si sente esentati dal vivere la vita della parrocchia nel suo insieme: si è sempre presenti quando il proprio gruppo organizza qualcosa, per il resto, ci si accontenta della Messa della domenica, qualche volta in altre parrocchie. Voi capite che queste dinamiche non solo non favoriscono la comunione, ma la spezzano. Alla fine ci sono tanti gruppi uno a fianco all’altro ma non c’è la comunione. Ciò finisce per creare malumori, tensioni, disaffezione, chiusura nel privato, ricerca di esperienze comunitarie extraparrocchiali e via dicendo. Così la comunità diventa davvero poco attraente e la dimensione missionaria della parrocchia ne risulta minata.
L’impatto di questo modo di vivere la vita comunitaria ha una ripercussione negativa soprattutto sulle giovani generazioni. I giovani si impegnano se vedono qualcosa di bello: può essere faticoso, ma è bello, nel senso pregnante del termine. Saremo in grado noi adulti di trasmettere loro un vivere comunitario interessante, pur nella fatica?
La cura per l’armonia della comunità comporta anche un rapporto davvero ecclesiale con chi in essa ha il compito di presiedere nella carità di Cristo, cioè col parroco. A lui, come pastore proprio, il Vescovo ha affidato la parrocchia ed egli ha il compito di moderare la sua vita. Voi conoscete ormai qual è il progetto pastorale di questi anni: dalle nostre dispersioni ad unirci intorno a Gesù (primo anno, cioè quello passato); dal riunirci intorno a Gesù a fare comunione con lui (secondo anno, cioè quello in corso); dalla e nella comunione con Gesù verso la missione (il terzo anno, cioè quello che inizierà a settembre 2017). A tutti, a cominciare dai miei confratelli nel sacerdozio, chiedo che questo progetto sia non solo tenuto presente ma incarnato nel settore in cui ciascuno opera.
Questo volevo dirvi questa sera con parresia, perché so che “siete capaci di portarne il peso” e so che posso sempre contare su di voi, anche quando non vi accarezzo.
Il Papa, nella EG ci dice che “La gioia del Vangelo è quella che niente e nessuno ci potrà mai togliere (cfr Gv 16,22). I mali del nostro mondo – e quelli della Chiesa (e della nostra comunità, ndr) – non dovrebbero essere scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro fervore. Consideriamoli come sfide per crescere. Inoltre, lo sguardo di fede è capace di riconoscere la luce che sempre lo Spirito Santo diffonde in mezzo all’oscurità (n. 84) …. Una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. Chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. Anche se con la dolorosa consapevolezza delle proprie fragilità, bisogna andare avanti senza darsi per vinti, e ricordare quello che disse il Signore a san Paolo: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male. Il cattivo spirito della sconfitta è fratello della tentazione di separare prima del tempo il grano dalla zizzania, prodotto di una sfiducia ansiosa ed egocentrica (n. 85).
La prima lettura di oggi parla di un popolo piccolo e povero – un resto – che il Signore lascerà. E ciò perché nessuno possa inorgoglirsi. Se saremo anche noi così potremo essere come Maria, come Giuseppe, come il Battista e i Santi, che sono davvero il “resto” con il quale Dio compie le sue meraviglie; potremo fare cose bellissime per Dio e per i fratelli.
Nel Vangelo Gesù ci parla di una vigna in cui ci chiama a lavorare: la nostra bella vigna è questa parrocchia. Lavoriamoci volentieri e per la gloria di Dio.
L’Eucaristia che ora celebriamo realizzi in noi ciò che sopra ho ricordato: tanti, un corpo solo, perché nutriti dell’unico pane, che è Cristo, il Veniente, la stella luminosa del mattino, l’incarnazione dell’infinito amore, che la Sposa non smette di attendere, dicendo: Marana Tha; vieni o Signore!