Omelia del parroco nella Messa della Notte di Natale

  • 25/12/2020
  • Don Gabriele

Cari fratelli e sorelle.

1. Chi ha già ricevuto il Chronicon probabilmente ha già letto ciò che ho scritto a proposito di questo Natale. E’ un Natale singolare e i motivi sono così noti che è inutile richiamarli qui. Vorrei però riandare ad un passaggio della mia riflessione nella quale facevo presente che di fronte alla tentazione di impoverire questo Natale, dovremmo invece reagire, celebrandolo più in profondità.

Ma come si fa a celebrare il Natale più in profondità? Nel mio scritto dicevo che è possibile nella misura in cui dilatiamo lo spazio del nostro cuore. Ma come è possibile dilatare questo spazio? Prendiamo spunto da ciò che succede nel corpo di una donna quando rimane incinta: i suoi organi interni si spostano per far posto al bambino che sta crescendo in lei. Il mistero della vita è grande ed è tutto dentro la dimensione dell’accoglienza. Un uomo e una donna prima di tutto accolgono l’idea di diventare realmente padre e madre, quando cercano un bambino e quando capiscono che lei è incinta. L’accoglienza è prima nel pensiero, nella testa e nel cuore, che nel corpo. Per l’uomo poi l’accoglienza durante i primi nove mesi è tutta lì: nel pensiero e nel cuore. Un bimbo si accoglie nella programmazione della vita, nel ridisegnare le priorità, nell’immaginarsi genitori, nella scelta del nome e via dicendo. Quando poi il bambino nasce, l’accoglienza si fa tanto concreta quanto sono i suoi pianti, i suoi bisogni, le sue esigenze. A volte, purtroppo, salta l’equilibrio della coppia perché il bambino è amato di un amore possessivo, che perciò è escludente; così capita che uno dei due escluda l’altro perché è geloso del bambino. Poi l’accoglienza reclama l’impegno per l’educazione integrale del bambino: la scolarizzazione, la socializzazione, la promozione delle capacità naturali e delle inclinazioni. L’accoglienza integra anche gli insuccessi educativi, le sorprese amare, perfino la sofferenza di non riconoscere più il proprio figlio, tanto è diverso nei risultati dall’impegno profuso, dagli investimenti in affetto, fatiche e sacrifici per lui. Allora l’accoglienza continua in quella zona del cuore dedicata alla sofferenza, all’attesa di un ravvedimento, di un ritorno, dedicata alla preghiera accorata … Si potrebbe andare avanti. Un bambino, un figlio ha a che fare con l’accoglienza. E poi non c’è solo la paternità e la maternità naturale: c’è anche quella spirituale. Un padre e una madre generano un figlio una volta sola fisicamente, ma innumerevoli volte spiritualmente: e a questa generazione spirituale siamo associati anche noi consacrati; noi che viviamo una paternità e una maternità nei confronti di coloro che ci sono affidati, che noi pure generiamo spiritualmente più e più volte.

Di fronte al Bambino di Betlemme che questa notte nasce nel mistero del memoriale liturgico noi possiamo vivere l’esperienza dell’accoglienza che segna ogni maternità e ogni paternità. E’ dunque necessario “fare spazio”: riprendiamo così la necessità del decentramento, che Giovanni Battista ci ha richiamato nell’Avvento appena terminato. Ma questo Bambino porta impressa l’immagine di ogni uomo e di ogni donna; per questo accogliere il Bambino di Betlemme non può essere disgiunto dall’accoglienza delle sue immagini, cioè di ogni uomo e di ogni donna, che per lui e in lui sono tutti “fratelli e sorelle”. Ce lo richiama San Paolo, quando esclama: “Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi per la gloria del Padre” (Rm 15).

E così siamo già passati ad un'altra prospettiva, che completa questa prima, anzi che viene prima di essa.

2. Il Bambino che noi celebriamo è lui che ha accolto noi per primo. Il mistero del farsi uomo da parte di Dio ha a monte questa accoglienza. S. Paolo la descrive in termini drammatici: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2). Il Natale patinato dei bei sentimenti a buon mercato non regge dinanzi a questo fatto, dinanzi a questo abisso: Dio si è abbassato, facendosi bambino, per accoglierci senza alcuna ambiguità; accogliendo la nostra natura ha accolto tutto di noi stessi, tranne il peccato che non apparteneva del resto alla nostra natura, benché abbia sperimentato in se tutte le drammatiche conseguenze del peccato, fino alla morte.

Questa accoglienza da parte di Dio in Gesù ha creato uno “scambio”, o, come dice una famosa espressione latina, un “admirabile commercium”: egli cioè assume da noi la sua umanità e noi assumiamo da lui la nostra divinità.

Questo meraviglioso scambio avviene poi tutte le volte in cui noi facciamo la santa Comunione. In quel momento si realizza la parola di Gesù: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui”. In questo s. Natale vorrei tanto che comprendessimo che il centro di tutto, il nucleo incandescente, come lo chiamo S. Giovanni Paolo II, quando venne a Lodi nel 1992, è l’Eucaristia che noi mangiamo. Gesù non ci ha solo illuminato con la sua Parola, ma ci dà un cibo, nel quale è presente la sua vita divina. Se noi comprendessimo che cosa significa fare la Comunione tremeremmo di stupore e di amore. Comprendiamolo in questo Natale! Come ti raggiunge davvero il Natale del Signore? Come puoi passare tu in lui e lui in te? Nella S. Comunione.

3. Ma c’è ancora una cosa da capire. Che cosa accade in realtà nella Santa Comunione? Tutti i comunicanti mangiano l’unico e medesimo pane, Cristo, il Signore. Mangiano all’unica mensa di Dio, nella quale non c’è alcuna differenza, nella quale l’imprenditore e il lavoratore, il tedesco e il francese, il dotto e l’incolto hanno tutti lo stesso rango. Se vogliono appartenere a Dio, appartengono all’unica mensa: l’Eucaristia li raccoglie tutti in un unico convivio. E, come detto, in comune non c’è solo la mensa, ma quello che essi mangiano; sul serio è assolutamente la stessa e medesima cosa: mangiano tutti Cristo, perché come uomini sono tutti uniti spiritualmente alla medesima realtà fondamentale di Cristo, tutti entrano per così dire in un unico spazio spirituale che è Cristo (Ratzinger, L’insegnamento del Concilio, vol. 7/1, LEV 2016,).

Nella Comunione Eucaristica si realizza dunque anche una reciproca accoglienza tra tutti noi: veniamo a formare un corpo, che è il corpo di Cristo, la sua Chiesa, che inizia proprio col farsi carne del Figlio di Dio.

Mi è molto caro questa sera pensare a tutti noi come ad un corpo unito. Mi è caro perché possiamo vivere questa profonda unità con tutti coloro che nella nostra comunità hanno sofferto e soffrono (ne ho avuto una prova tangibile nelle confessioni di questi giorni). In questo modo la nostra solidarietà non è solo esteriore ma anche interiore. Se siamo un corpo solo, insieme soffriamo e insieme gioiamo. Ma proprio perché siamo un corpo solo e il sangue che fa vivere questo corpo è la carità, cioè l’amore del Signore, il nostro essere qui questa sera è anche per chi in mezzo a noi più ha pagato le conseguenze di questo contagio. Noi vorremo far giungere loro la nostra vicinanza, la nostra preghiera, la nostra fede, perché nel loro dolore si apra una fessura da cui possa entrare un po’ di luce. Vorremmo dire loro di credere ancora all’amore del Signore, che come Bambino bussa alla porta del loro cuore per far rinascere la speranza, che non delude, non solo per noi che siamo ancora qui pellegrini, ma anche per coloro che ci hanno preceduto e che questa sera, più di noi contemplano pieni di grato stupore in cielo il mistero che noi – umili – adoriamo sulla terra.

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