RISENTIMENTO NEI CONFRONTI DI DIO
RISENTIMENTO NEI CONFRONTI DI DIO
Cari fratelli e sorelle, mentre il ritmo della vita comunitaria gradualmente riprende, vorrei affrontare un tema difficile, che, tuttavia, non può essere eluso. Abbiamo sentito dire, io stesso ne ho parlato e non una volta sola, che i mesi scorsi hanno visto un incrementarsi della preghiera, un certo ritorno a Dio o comunque alla sfera del trascendente. Ma ci sono state anche reazioni di segno avverso. Mi riferiscono alle aperte ribellioni nei confronti di Dio, espresse magari in invettive e – da non escludersi – in vere e proprie bestemmie. Difficile stabilire il grado di colpevolezza di chi si è comportato così; certamente non è da lodare, ma neppure da condannare senza appello: il dolore, la prova, la paura a volte tolgono lucidità e riducono la colpevolezza. Ci sono tuttavia altre situazioni più insidiose le quali, se non risolte, possono far perdere la fede e con esse il “bene della fede”, che fonda la speranza. Mi riferisco a quello stato d’animo che consiste in una sorta di risentimento nei confronti di Dio per ciò che è successo, che si trasforma in un cupo silenzio dinanzi a lui, in una messa in discussione del suo interesse per le faccende di noi mortali, in uno star male dentro, in un martellante “perché”, che si nutre però di se stesso. D’altra parte, questo stato d’animo può trasformarsi in un insperato progresso della fede, nella misura in cui, però, non ci si ostini a voler star male. Cerco di spiegarmi con un esempio. Può capitare nelle relazioni interpersonali che qualcosa vada storto. Credo che la delusione più grande nei rapporti amorosi si provi dinanzi al tradimento consumato da colei/colui che rappresenta il nostro bene. In questo caso, la via da seguire può essere duplice. C’è il modo di comportarsi di chi – ferito – continua a chiedere all’altro: “Perché”, senza però dargli la possibilità di parlare, di spiegarsi, di chiedere anche perdono … E’ l’ossessionante domanda che risuona: “Perché? Perché?”. In questo modo, ci si chiude in una torre senza porte e senza finestre e si continua a girare dentro, dove manca la luce e gradualmente anche l’aria. Oppure si può scegliere la via del dialogo, permettendo all’altra persona di parlare, di esprimersi, di aprirsi, di rivelare ciò che è successo dentro di lei e l’ha condotta a comportarsi così. In questo modo, cessa l’ossessione del “perché” e si riaccende il dialogo, che può diventare anche spigoloso, anche duro, ma è tutta un’altra cosa, rispetto allo snervante e sterile “perché”. Sono due atteggiamenti antitetici: il duro e dolente silenzio di chi ha ormai escluso l’altro e non ascolta neppure più le sue ragioni, oppure l’atteggiamento umanissimo di chi non può non ascoltare la persona amata affinché si spieghi, si faccia capire, chieda anche perdono … Riportiamo ora il paragone alla situazione della persona che prova nei confronti di Dio quella sorta di rancore muto di cui ho detto. Domandare “perché” è certamente legittimo, ma “barricarsi” dentro il “perché” è sterile e non porta da nessuna parte, se non verso lo “star male”. Bisogna “riaprire” il dialogo, superando la delusione. Si prende il prete, per esempio, e si comincia da lì: si comincia a parlare, a tirare fuori i “perché”, le obiezioni, ma si riprende anche ad ascoltare. Si cerca di avere una lettura sapienziale del nostro vivere, facendo riferimenti e paragoni ad altri momenti drammatici: come sono stati vissuti, quale spinta interiore ha sostenuto, che rapporto hanno istituito con Dio quegli uomini e quelle donne … Non è il tempo di lasciarsi appassire, soprattutto se si è nella giovinezza. E Dio non è nemico della nostra vita. Ma lo sforzo di riaprire una linea di credito nei suoi confronti è una scelta di libertà: solo noi lo possiamo decidere. Per non essere tristi una vita intera …E per non stordire la tristezza con la trasgressione, l’apatia o il cinismo.