Omelia del Parroco alla Messa di Pentecoste, 31 maggio 2020
1. Cari fratelli e sorelle, la Pentecoste è il compimento del mistero pasquale, perché lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio, è il frutto della Pasqua che provoca in noi la risurrezione, così come l’ha “provocata” in Cristo. Per questo nel credo diciamo che lo Spirito Santo è Signore e dà la vita.
2. La narrazione della Pentecoste negli Atti degli Apostoli, che abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr At 2,1-11), contiene sullo sfondo uno degli ultimi grandi affreschi che troviamo all’inizio dell’Antico Testamento: l’antica storia della costruzione della Torre di Babele (cfr Gen 11,1-9). Ma che cos’è Babele? E’ la descrizione di un regno in cui gli uomini hanno concentrato tanto potere da pensare di non dover fare più riferimento a un Dio lontano e di essere così forti da poter costruire da soli una via che porti al cielo per aprirne le porte e mettersi al posto di Dio. Ma proprio in questa situazione si verifica qualcosa di strano e di singolare. Mentre gli uomini stavano lavorando insieme per costruire la torre, improvvisamente si resero conto che stavano costruendo l’uno contro l’altro. Mentre tentavano di essere come Dio, correvano il pericolo di non essere più neppure uomini, perché avevano perduto un elemento fondamentale dell’essere persone umane: la capacità di accordarsi, di capirsi e di operare insieme.
Questo racconto biblico contiene una sua perenne verità; lo possiamo vedere lungo la storia, ma anche nel nostro mondo. Con il progresso della scienza e della tecnica siamo arrivati al potere di dominare forze della natura, di manipolare gli elementi, di fabbricare esseri viventi, giungendo quasi fino allo stesso essere umano. In questa situazione, pregare Dio sembra qualcosa di sorpassato, di inutile, perché noi stessi possiamo costruire e realizzare tutto ciò che vogliamo (cf Benedetto XVI, omelia di Pentecoste, 27 maggio 2012).
Forse ciò che ci è successo in questi mesi ha ridimensionato un po’ il delirio di onnipotenza che ci aveva preso. Forse. Anche pregare Dio ha rappresentato per molti un rifugio, un aiuto. Di fronte alla paura di ammalarsi e di morire forse abbiamo iniziato nuovamente a pregare e a prendere un po’ la distanza dall’arroganza della scienza e della tecnica che ha dimostrato di non essere infallibile e di non essere in grado di risolvere i problemi in maniera quasi magica, come stavamo abituandoci a pensare. Forse! Vedremo come andrà nei prossimi mesi: se il ritorno a Dio è stato un fuoco di paglia o se davvero abbiamo capito che la preghiera “apre le situazioni” e ci mette nella giusta prospettiva dinanzi a noi stessi, agli altri, ai fatti della vita ….
C’è sempre il rischio di rivivere la stessa esperienza di Babele. E’ vero, abbiamo moltiplicato le possibilità di comunicare, di avere informazioni, di trasmettere notizie, ma possiamo dire che è cresciuta la capacità di capirci o forse, paradossalmente, ci capiamo sempre meno? Tra gli uomini non sembra forse serpeggiare un senso di diffidenza, di sospetto, di timore reciproco, fino a diventare perfino pericolosi l’uno per l’altro? Lo stesso distanziamento sociale, che è pur necessario, non rischia di trasformarsi – se non stiamo attenti – in chiusura, in egoismo? Ritorniamo allora alla domanda iniziale: può esserci veramente unità, concordia, aiuto reciproco? E come?
La risposta la troviamo nella Sacra Scrittura: l’unità può esserci solo con il dono dello Spirito di Dio, il quale ci darà un cuore nuovo e una lingua nuova, una capacità nuova di comunicare. E questo è ciò che si è verificato a Pentecoste. In quel mattino, cinquanta giorni dopo la Pasqua, un vento impetuoso soffiò su Gerusalemme e la fiamma dello Spirito Santo discese sui discepoli riuniti, si posò su ciascuno e accese in essi il fuoco divino, un fuoco di amore capace di trasformare. La paura scomparve, il cuore sentì una nuova forza, le lingue si sciolsero e iniziarono a parlare con franchezza, in modo che tutti potessero capire l’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto, che fa rinascere la speranza. A Pentecoste, dove c’era divisione ed estraneità, sono nate unità e comprensione (cf ib). Questa unità e questa comprensione ci sono necessarie ora più che mai per affrontare le sfide che ci attendono: c’è una comunità da rimettere insieme, ci sono ferite da curare, c’è una solidarietà nuova da inventare, c’è una pigrizia nei confronti del bene da scacciare, ci sono atteggiamenti da cambiare, c’è un rispetto nei confronti dell’altro da imparare, c’è una cordialità da vivere, c’è una sincerità nelle relazioni da apprendere, c’è persino un linguaggio nuovo da impostare.
3. Certo, Gesù offre alla Chiesa il suo Spirito e noi uomini e donne offriamo alla Chiesa la nostra umanità; perciò lo Spirito Santo è chiamato ad operare nella pesantezza, nell’opacità, nella pigrizia, nella durezza della realtà umana. E’ così; bisogna riconoscerlo con umiltà. Tuttavia se si crede davvero che Gesù ha dato lo Spirito alla sua Chiesa non si deve pensare che gli uomini siano tanto miserabili da rendere inerte la Chiesa di Dio. E questo vale anche per la nostra comunità, che, localmente, è la Chiesa del Signore. Ringraziamo Gesù, che ne è lo Sposo fedele. La Chiesa, benché porti il peso di una moltitudine di uomini e di donne deboli e peccatori, è resa viva dallo Spirito, quindi è indefettibile nella fedeltà alla sua missione. Questo è il modo concreto di credere che lo Spirito Santo non è l’anima fallita della Chiesa, non è il principio che la rende viva che ha subito uno scacco dalla nostra insipienza.
Oggi è Pentecoste e di nuovo lo Spirito si effonde sulla Chiesa, si effonde su questa cara comunità : apriamo i nostri cuori affinché lo Spiritus Creator li rigeneri, li consoli, li fortifichi, li illumini, li scaldi.
Nell’Eucaristia che ora celebriamo, è lo Spirito che trasforma il pane e il vino nel Corpo e nel sangue del Signore: trasformi anche noi nel Corpo vivente di Cristo che passa nel mondo facendo il bene.