ELOGIO DELLA MIA GENTE

  • 20/03/2020
  • Don Gabriele

ELOGIO DELLA MIA GENTE

Cari fratelli e sorelle, le settimane stanno lentamente trascorrendo da quel tremendo 21 febbraio 2020. Le prove sono state innumerevoli, il dolore profondo a causa della sofferenza dovuta alla malattia e allo strazio per i tanti decessi. La vita della comunità è stata stravolta e dovrà passare ancora tempo prima che si ritorni alla normalità. Dentro la trama di tutto questo sconvolgimento, è emersa però la grande dignità con cui avete affrontato la situazione. Dignità che si è manifestata attraverso una serie di atteggiamenti. Innanzi tutto la pazienza. Pazienza nel contare i giorni. Pazienza nello stare chiusi in casa. Pazienza nell’attendere la visita di un medico, soprattutto quando ne avevamo uno solo a disposizione. Pazienza nel telefonare ai numeri prestabiliti senza avere risposte. Pazienza quando la febbre si alzava e non si sapeva bene dove andare a parare. Pazienza nel fare la fila dinanzi ai negozi o alla farmacia. Pazienza quando uno dei vostri cari era stato ricoverato e avevate notizie frammentarie sulle sue condizioni. Pazienza quando la febbre, dopo essersene andata, ritornava implacabile. Pazienza in ospedale senza vedere nessuno tra i volti amati. Pazienza nella trepidazione. Pazienza di non poter partecipare alla Messa, di non potervi comunicare, di non vivere la vita comunitaria … Quanta pazienza avete portato e state ancora portando. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Romani, dice: “Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 3-5). Vi invito perciò a vivere la “pazienza” generata dalla grande tribolazione in cui ci troviamo nella prospettiva cristiana: la pazienza conduce alla speranza, e la speranza non delude! Oltre alla pazienza, mi ha compito molto la compostezza con cui coloro che sono stati privati dei loro cari hanno vissuto il momento del lutto. Ancor più notabile, tenuto conto che quasi tutti avevano visto il proprio congiunto l’ultima volta il giorno del ricovero e accoglievano ora le sue spoglie in una bara sigillata. A questi fratelli e sorelle che cosa posso dire se non richiamare la frase di S. Agostino, già più volte citata, ossia che “I nostri morti sono coloro che fissano i loro occhi pieni di gloria nei nostri pieni di lacrime”. La speranza che non delude va oltre la vita terrena e ci fa capire che morire è l’anticipo del risorgere, la condizione per partecipare alla vita del Risorto, che è la speranza fatta persona, non un semplice concetto o una pia esortazione. Il Risorto è colui che ci stringe tutti nel suo abbraccio, grazie alla fede e ai sacramenti, e ci trascina con sé nelle regioni della risurrezione. State fermi, miei fratelli e mie sorelle, in questa speranza: è la luce di questi giorni, è la luce che trasfigura ogni tramonto in un’alba. Con tanto affetto

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